Sempre aperti dalle 6:30 alle 20:00
Ferie: 1° gennaio, Lunedì in Albis, una settimana in agosto
Consegne su ordinazione per feste e cerimonie
di Giulia Cannada Bartoli
Comincia con la Pasticceria Leone, una piccola raccolta sulla stessa linea della rubrica delle osterie. L’usanza di servire il dolce a fine pasto in questo tipo di ambienti è cosa relativamente recente:solo dolci artigianali,nei periodi di Pasqua e Natale. Oggi, non c’è più distinzione, la pastiera si serve tutto l’anno, giusto i dolci natalizi hanno resistito alla sacralità della tradizione e poi, estranei, al mondo delle trattorie, c’è tutto il delizioso panorama della pasticceria da prima colazione, da passeggio, da thè e le “pastarelle” della domenica. La pasticceria napoletana, come la cucina, ha assorbito le influenze di molte culture e dominazioni. I dolci della tradizione napoletana sono il ricordo quotidiano di una vecchia storia d’amore, la memoria di un legame tra questa terra e le radici antiche della sua cucina.
“Tra Amalfi e Positano, mmiez’e sciure
nce steva nu convent’e clausura.
Madre Clotilde, suora cuciniera
pregava d’a matina fin’a sera;
ma quanno propio lle veneva‘a voglia
priparava doie strat’e pasta sfoglia.
Uno ‘o metteva ncoppa,e l’ato a sotta,
e po’ lle mbuttunava c’a ricotta,
cu ll’ove, c’a vaniglia e ch’e scurzette.
Eh, tutta chesta robba nce mettette!
Stu dolce era na’ cosa favolosa:
o mettetteno nomme santarosa,
e ‘o vennettene a tutte’e cuntadine
ca zappavan’a terra llà vicine.
A gente ne parlava, e chiane chiane
giungett’e’ recchie d’e napulitane.
Pintauro, ca faceva ‘o cantiniere,
p’ammore sujo fernette pasticciere.
A Toledo nascette ‘a sfogliatella:
senz’amarena era chiù bbona e bella!
Come in quasi tutte le città dell’ Europa cattolica, l’arte della pasticceria nacque a Napoli nei conventi femminili. Con l’avanzare dei tempi moderni i conventi cominciarono a svuotarsi e le ricette, tenute per anni gelosamente segrete, finirono nelle mani di abili artigiani pasticcieri che ce le hanno fortunatamente tramandate. In un convento del centro storico di Napoli, nella zona del vecchio Policlinico, nacquero nel pieno settecento, le prime sfogliatelle ricce, diventate poi il dolce simbolo della città. Solo la pazienza ed il tanto tempo libero consentiva alle monache di stendere in strisce strettissime, lunghe diversi metri, e di circa un mm di spessore, la pasta di farina, acqua, sale e sugna per poi arrotolare due volte in rotoli strettissimi da tagliare a fette spesse un cm., ripiegare a sacchetto, o, imbuto, e riempirli di un soffice ripieno di semolino cotto in acqua bollente, ricotta, uova, zucchero, canditi, a pezzetti e aroma di vaniglia e cannella I fagottini venivano poi infornati ad alta temperatura per circa un quarto d’ora, diventando bionde e croccanti conchiglie spolverate di zucchero a velo da mangiare preferibilmente calde, ma, anche fredde. Altrettanto saporita, ma di più agevole preparazione la sfogliatella frolla, biondo involucro di morbida pasta frolla con il medesimo ripieno. Sulla costiera amalfitana nel convento delle Monache di Santa Rosa, nasce la deliziosa variante della “Santarosa”, con l’aggiunta di uova nell’impasto, di più grandi dimensioni e con la rifinitura golosa sul bordo di chiusura di un cordone di crema pasticcera e di marmellata di amarene a pezzi.nce steva nu convent’e clausura.
Madre Clotilde, suora cuciniera
pregava d’a matina fin’a sera;
ma quanno propio lle veneva‘a voglia
priparava doie strat’e pasta sfoglia.
Uno ‘o metteva ncoppa,e l’ato a sotta,
e po’ lle mbuttunava c’a ricotta,
cu ll’ove, c’a vaniglia e ch’e scurzette.
Eh, tutta chesta robba nce mettette!
Stu dolce era na’ cosa favolosa:
o mettetteno nomme santarosa,
e ‘o vennettene a tutte’e cuntadine
ca zappavan’a terra llà vicine.
A gente ne parlava, e chiane chiane
giungett’e’ recchie d’e napulitane.
Pintauro, ca faceva ‘o cantiniere,
p’ammore sujo fernette pasticciere.
A Toledo nascette ‘a sfogliatella:
senz’amarena era chiù bbona e bella!
Ancora, la pasta reale, piccoli mucchietti di pasta di mandorla attaccati ad ostie di diverse forme con in cima un confettino d’argento. Sono dolci privi di grassi animali e pare si chiamino così per la visita che Re Ferdinando IV fece un pomeriggio presso le monache di un convento a San Gregorio Armeno e che in refettorio trovasse un lauto banchetto.
Il sovrano già sazio, non aveva capito si trattasse di un lavoro di straordinario cesello tutto in pasta realeJ; questa tradizione è oggi più siciliana, anche se, i nostri maestri pasticceri eseguono un lavoro simile con un altro dolce antico, le lingue di gatto, biscotti particolarmente adatti per la decorazione di dolci e per il thè, il cui nome deriva della caratteristica forma allungata, appunto simile alla lingua di un gatto. Appena sfornati, quando sono ancora caldi, sono estremamente malleabili, possono quindi essere forgiati in forme diverse e ricoperti di pasta reale e/o cioccolato fondente.
E ora Sua Maestà il Babbà:
“Mamma” è ‘a primma parulella
ca riuscimmo a pronunzià.
Ma ‘a siconna è assai chiù bella;
Papà, babbo? No: babà.
‘O babà nasce polacco,
nuje l’avimme migliorate.
Sì, ce piaceno ‘nu sacco
chisti dolce lievitate
inzuppate dint’o rrumme,
fatte a form’e fungetiello.
I che gusto, e che prufumme!
Né babbà, quanto si’ bello!
“dolce culto e simbolo della napoletanità, il babà, ha origini nordiche e soprattutto lontane dalle cucine dei monasteri.Saltiamo per ora il corposo capitolo dei dolci di Natale e passiamo ai dolci da colazione o da “spezza fame”, sempre da passeggio, da mangiare a morsi per strada o “inzuppati” nel latte al bar o tra le mura domestiche, altro fiore all’occhiello della pasticceria Leone. Nonostante diverse versioni, una cosa è certa: la brioche è francese, il Camilleri la definisce “piccolo dolce di pasta soffice e leggera: brioche, dall’antico normanno brier, impastare.”
Il “cornetto” pare derivi dalla sua caratteristica forma a mezzaluna: in tedesco “kipferl”, (pare, uno sberleffo alla forma della bandiera dell’impero ottomano), in italiano “cornetto” ed in francese croissant, ossia «crescente», in nord e centro Italia cornetto e brioche sono, in genere, assimilati. A Napoli invece, la differenza è profonda e deriva dall’impasto del cornetto che può essere “briosciato” (sempre più raro da trovare) ovvero, lavorato e fatto “crescere” due volte come la brioche, oppure di pasta sfoglia. La farcia tradizionale è con crema e amarena, oggi li troviamo con marmellata, nutella o, semplicemente vuoti. La versione briosciata pare essere la più digeribile.
Versione diversa da quella tedesca, è il nostro “krantz” (briosche con l’uvetta), dove possono o non possono alternarsi strati di pasta brioche con strati di pasta sfoglia e crema, il tutto opportunamente farcito di uvette, canditi e coperto di zucchero in granella e con la particolarità di una formatura finale attorcigliata in senso circolare.
La brioche a Napoli, per la gioia dei più piccoli, s’impasta anche a mò di treccia ricoperta di zucchero granellato, le fasi della lavorazione sono un momento di magia:
Un altro dolce tipico da colazione al bar è la graffa soffice ciambella fritta, tipica di carnevale. L’impasto deve lievitare più volte ed è a base di farina e patate lessate e schiacciate.
Le graffe sono un dolce tipico della tradizione napoletana che a molti evocano ricordi d’infanzia, quando da bambini queste ciambelle venivano preparate in casa e alle feste appese ad un filo: i bambini dovevano divorarle in ginocchio senza mani, uno spettacolo.
Inserisco oggi nella lista della colazione un dolce del cuore, per trattare poi, con le altre pasticcerie dell’infinita gamma dei dolci napoletani. Parlo della piccola e semplice
“Maddalena”, quella imbustata singolarmente e oggi sempre più difficile da trovare.
La “madaleine” di origine chiaramente francese nasce come piccolo dolce da thè nella Francia del nord. A forma di conchiglia si rivela soffice al palato, declinando ad uno ad uno i semplici ingredienti:acqua,o, latte, uova, farina, burro, zucchero, aroma di mandorle, lievito. La forma della madeleine è dovuta allo stampo a conchiglia nel quale vengono cotte.
Si pensa che questi dolci risalgano al XVIII secolo, quando Luigi XV, assaggiatele allo Chateau de Commercy, se ne innamorò a tal punto che gli diede il nome della pasticcera che le aveva create: Madeleine Paulmier. L’apertura di quella bustina mi riporta indietro di oltre 40 anni , al ricordo della bustina trasparente con la scritta in blu.
La pasticceria Leone si trova alla fine della Riviera di Chiaia, che, dagli anni della guerra e fino a quelli del boom economico, è sempre stata una zona di popolo, di vicoli, di mestieri, di spiaggia, mare e pescatori. Oggi la parte esterna è popolata da palazzi nobili e borghesi, mentre i vicoli conservano, un po’ come il Corso Umberto dopo il Risanamento, l’aspetto decadente dei secoli passati. Allora era normale impiantare le attività negli ampi androni e portoni dei palazzi, questo è quello che successe al pasticciere e cantante per diletto, Leone Varriale nei primi anni del dopo guerra (1946 circa), al civico 61 della Riviera di Chiaia, ai confini con il rione della Torretta, Leone aprì una piccola pasticceria con laboratorio annesso nel cortile a sinistra. La conduzione era familiare con ragazzini della zona a bottega, tra questi Alfredo Russo, allora tredicenne, e papà degli attuali gestori: Gennaro e Monica con la colonna portante che è mamma Rosaria.
Alfredo è stato a bottega con Leone per oltre quarant’anni, fino alla sua morte agli inizi degli anni ’90. quando rileva il tutto, lasciando invariato il nome, la struttura del locale ed il tipo di produzione. Solo una rinfrescata, qualche nuovo addobbo, ma nulla di sostanziale è cambiato, neanche oggi.Il locale in stile liberty, colori bianco e verde tenue; alle pareti vecchie foto ed un lampadario acquistato da mamma Rosaria ai “tiemp’ bell’ ‘e nà vòta”. E’ presto per me ma non per loro. I pasticcieri Alfredo e suo fratello cominciano alle quattro del mattino. L’aria è avvolta da un profumo antico, fatto di ingredienti veri e semplici.
Il laboratorio è quasi a vista. Alle 8,00 arriva Monica, la fac totum , sorriso stampato sulle labbra. Sui volti di Alfredo, Mamma Rosaria e Monica leggo tanta fatica, ma soprattutto tanta passione e devozione per un mestiere difficile da tramandare. Si lavora tutto il giorno a ritmi cadenzati, l’attività di laboratorio termina verso le 17,00, quando Gennaro, dopo quasi 12 ore ininterrotte di lavoro, va a riposare, lasciando Monica e mamma Rosaria a guardia del forte.
E’ un lavoro affascinante, ma duro, non sono permessi cedimenti di tempo, né, nella lavorazione, né, nella tipologia che pur restando saldamente attaccata alla tradizione, confermata da questi strepitosi vassoi di meringhe, piccoli mont blanc, prussiane e francesine.
Si è adeguata alla produzione di tiramisù, capresi, e torte personalizzate,con il “Russo” cake design napoletano, più ingenuo e semplice nei personaggi, rispetto a quello di oggi ma, con i materiali e i soggetti di una volta. Naturalmente i Russo lavorano tuttoil repertorio tradizionale: sciù, zuppette, teste di moro, cannoli, crostatine e chi più ne ha più ne metta.
Sorprendente un’occhiata ai prezzi, la pasticceria mignon va a 16 euro e 50 al chilo, le torte a 18 euro al chilo, per non parlare dei costi della pasticceria da prima colazione: 0,70 e 0,80 centesimi per cornetti e brioche ed un euro per la pasticceria secca, circa il 25% in meno della media di città.
Naturalmente qui non esistono conservanti, né coloranti, ho visto burro, uova, farina e cioccolato con i miei occhi e la crema pasticcera preparata da Monica e Gennaro.
E’ solo un braccio di ferro per fare meno fatica, ma la forza dei Russo è tutta qui : cuore, braccia, gambe, anima e passione. La speranza è che tutto questo riesca a passare alle nuove generazioni.
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