di Giulia Cannada Bartoli
Atmosfera suggestiva nella grande cantina di Grotta del Sole, trasformata per l’occasione in sala di presentazione.
Il fil rouge è molto evidente: l’analisi di 3.500 anni di enogastronomia flegrea, svolta dall’ autore, il Prof. Alfredo Carannante, si lega indissolubilmente alle origini del vino italiano: la cantina si trova infatti, a pochi passi da Cuma, considerata la “culla” dell’enologia mondiale. Prestigiosa la tavola dei relatori, moderata da Pino Taormina: l’autore Alfredo Carannante, Paolo Caputo, Soprintendente di Cuma ,
Luciano Pignataro, giornalista de Il Mattino e titolare di uno dei blog di enogastronomia tra i più letti in Italia
e Giovanni Fulvio Russo, Docente dell’ Università Parthenope.
Il moderatore esaurisce con efficace rapidità la parte dedicata ai saluti istituzionali: la padrona di casa Elena Martusciello,
l’editore Mario Marotta di Valtrend che è un interessante acronimo, Valorizzazione e tutela delle risorse endogene.
L’editore sottolinea il forte legame tra passato e presente contenuto nel libro, considerandolo un valido strumento pratico sia, di conoscenza e promozione del territorio dei Campi Flegrei, sia, gastronomico, dal momento che il testo contiene 126 ricette con ingredienti e dosi, tutte da sperimentare. Il primo intervento è del Soprintendente di Cuma, Paolo Caputo, che sottolineando il carattere di suggestivo viaggio e percorso enogastronomico nei Campi Flegrei ad opera dell’autore, conferma la forte valenza culturale del cibo, rammaricandosi che nell’area in questione, sono ancora pochi i focolari più antichi ritrovati: a Vivara sull’isola di Procida, a Cuma e a Baia, dove è avvenuto anche il ritrovamento del Ninfeo sommerso nella zona di Punta Epitaffio; andando avanti nei secoli, Caputo cita la splendida cucina della Certosa di Padula (Sa) , del 1300, dove venne cucinata una frittata di 1000 uova.
e l’importanza del cibo dal punto di vista della bioarcheologia, disciplina che studia contenitori, ambientazioni del cibo e frammenti organici, quali ossa di mammiferi, uccelli, pesci, conchiglie e semi che rappresentano i resti dei pasti e rivelano gli alimenti utilizzati, la preparazione e il metodo di cottura. Facendo un salto all’indietro, Caputo cita il periodo sannita di Cuma, dove sulla tavola arrivavano i “mallardi” , ossia i germani reali, il melograno e l’orzo. Dai Sanniti, oscurati dai Romani, si passa alla descrizione dei banchetti flegrei dell’età imperiale con il “De Re Coquinaria” di Apicio e alle umili portate offerte da Marziale agli amici. In ogni capitolo dell’opera di Apicio – osserva Caputo – si evince quanto, ancora in età imperiale, fosse importante per i gastronomi romani rifarsi alla tradizione greca che proprio nei Campi flegrei avevano scoperto e assorbito. L’intervento del Soprintendente prosegue con diverse citazioni di questa mirabile opera, che, ritengo dovrebbe essere oggetto di studio e riflessione da parte degli chef giovani e più affermati, quale contributo alla propria cultura enogastronomica dal punto di vista umanistico.
La parola passa al giornalista Luciano Pignataro che, per analogia, collega la poca attenzione in archeologia ai resti di cibo negli scavi, a quanto succede anche in storiografia, dove, per esempio, lo storico francese Fernand Braudel (1902 – 1985) pone al centro dei suoi studi le civiltà e i cambiamenti a lungo termine, in opposizione alla storia degli avvenimenti già famosi e descritti dai più.
Il giornalista cita anche un altro storico francese Marc Bloch, il quale fu uno dei primi storici francesi a interessarsi allo studio comparato delle civiltà e alla storia del pensiero, vista anche come storia antropologica. Bloch studiò a lungo le campagne e i rapporti di produzione, economici e quindi anche sociali, soffermandosi su aspetti che la storia ufficiale non ha mai considerato.
Tornando all’opera di Carannante, Pignataro sottolinea come i 3.500 anni di storia dei Campi Flegrei sembrino esaurirsi in un soffio, grazie alla continuità della tipologia di alimenti impiegati, che arrivano sino ai nostri giorni. In questo senso la storia dell’ enogastronomia flegrea costituisce un esempio etico di continuità culturale e di possibili percorsi futuri. Non è un caso che la gastronomia napoletana di città sia seconda soltanto a quella parigina. La città ha assorbito la gastronomia ed i prodotti delle aree interne e costiere ( es. ortaggi e legumi), unendola all’arrivo della pasta che ha soddisfatto il fabbisogno calorico della popolazione, così come il riso ha fatto per i cinesi. Il cibo – prosegue Pignataro – non può essere slegato dalla storia: le abitudini gastronomiche sono un patrimonio che l’enclave partenopea delle vecchie generazioni conserva gelosamente, mostrando un atteggiamento respingente verso le novità; al contrario, giovani generazioni di chef trentenni, hanno assorbito tale patrimonio, rivisitandolo in chiave moderna semplicemente attraverso l’uso di nuove tecnologie di cucina, senza mai abbandonare i prodotti della tradizione. D’altra parte, la crisi ha aguzzato l’ingegno delle giovani generazioni, provocando fenomeni, quali la nascita, in un improbabile contesto sociale, di locali dove si lavora per rendere i sapori ritrovati della tradizione più netti e intellegibili da tutti.
Questa “rivoluzione” che è in corso nella nostra regione, non sarebbe stata possibile senza la conoscenza di ciò che si racconta, a mò di romanzo, nell’opera del Prof. Carannante. Il giornalista conclude sottolineando l’importanza della memoria, quale bene immateriale da trasmettere di generazione in generazione, lanciando una proposta concreta: la preparazione delle 126 ricette descritte nel libro, ad opera della nuova schiera di giovani chef campani d’eccellenza.
Interviene l’autore, che, nel ringraziare tutte le persone che hanno reso possibile tale pubblicazione e il gremito pubblico che ha riempito la cantina, sottolinea l’inversione di tendenza negli studi di archeologia e bioarcheologia, dove i giovani studenti stanno imparando a dare il giusto peso al ritrovamento dei cd. “reperti minori” e ai luoghi di ambientazione e preparazione del cibo: Pompei, Cuma, San Vincenzo al Volturno, dove sono stati ritrovati resti di ceramiche per uso di cottura di alimenti e per la successiva presentazione dei cibi ai commensali.
Atmosfera suggestiva nella grande cantina di Grotta del Sole, trasformata per l’occasione in sala di presentazione.
Il fil rouge è molto evidente: l’analisi di 3.500 anni di enogastronomia flegrea, svolta dall’ autore, il Prof. Alfredo Carannante, si lega indissolubilmente alle origini del vino italiano: la cantina si trova infatti, a pochi passi da Cuma, considerata la “culla” dell’enologia mondiale. Prestigiosa la tavola dei relatori, moderata da Pino Taormina: l’autore Alfredo Carannante, Paolo Caputo, Soprintendente di Cuma ,
Luciano Pignataro, giornalista de Il Mattino e titolare di uno dei blog di enogastronomia tra i più letti in Italia
e Giovanni Fulvio Russo, Docente dell’ Università Parthenope.
Il moderatore esaurisce con efficace rapidità la parte dedicata ai saluti istituzionali: la padrona di casa Elena Martusciello,
l’editore Mario Marotta di Valtrend che è un interessante acronimo, Valorizzazione e tutela delle risorse endogene.
L’editore sottolinea il forte legame tra passato e presente contenuto nel libro, considerandolo un valido strumento pratico sia, di conoscenza e promozione del territorio dei Campi Flegrei, sia, gastronomico, dal momento che il testo contiene 126 ricette con ingredienti e dosi, tutte da sperimentare. Il primo intervento è del Soprintendente di Cuma, Paolo Caputo, che sottolineando il carattere di suggestivo viaggio e percorso enogastronomico nei Campi Flegrei ad opera dell’autore, conferma la forte valenza culturale del cibo, rammaricandosi che nell’area in questione, sono ancora pochi i focolari più antichi ritrovati: a Vivara sull’isola di Procida, a Cuma e a Baia, dove è avvenuto anche il ritrovamento del Ninfeo sommerso nella zona di Punta Epitaffio; andando avanti nei secoli, Caputo cita la splendida cucina della Certosa di Padula (Sa) , del 1300, dove venne cucinata una frittata di 1000 uova.
e l’importanza del cibo dal punto di vista della bioarcheologia, disciplina che studia contenitori, ambientazioni del cibo e frammenti organici, quali ossa di mammiferi, uccelli, pesci, conchiglie e semi che rappresentano i resti dei pasti e rivelano gli alimenti utilizzati, la preparazione e il metodo di cottura. Facendo un salto all’indietro, Caputo cita il periodo sannita di Cuma, dove sulla tavola arrivavano i “mallardi” , ossia i germani reali, il melograno e l’orzo. Dai Sanniti, oscurati dai Romani, si passa alla descrizione dei banchetti flegrei dell’età imperiale con il “De Re Coquinaria” di Apicio e alle umili portate offerte da Marziale agli amici. In ogni capitolo dell’opera di Apicio – osserva Caputo – si evince quanto, ancora in età imperiale, fosse importante per i gastronomi romani rifarsi alla tradizione greca che proprio nei Campi flegrei avevano scoperto e assorbito. L’intervento del Soprintendente prosegue con diverse citazioni di questa mirabile opera, che, ritengo dovrebbe essere oggetto di studio e riflessione da parte degli chef giovani e più affermati, quale contributo alla propria cultura enogastronomica dal punto di vista umanistico.
La parola passa al giornalista Luciano Pignataro che, per analogia, collega la poca attenzione in archeologia ai resti di cibo negli scavi, a quanto succede anche in storiografia, dove, per esempio, lo storico francese Fernand Braudel (1902 – 1985) pone al centro dei suoi studi le civiltà e i cambiamenti a lungo termine, in opposizione alla storia degli avvenimenti già famosi e descritti dai più.
Il giornalista cita anche un altro storico francese Marc Bloch, il quale fu uno dei primi storici francesi a interessarsi allo studio comparato delle civiltà e alla storia del pensiero, vista anche come storia antropologica. Bloch studiò a lungo le campagne e i rapporti di produzione, economici e quindi anche sociali, soffermandosi su aspetti che la storia ufficiale non ha mai considerato.
Tornando all’opera di Carannante, Pignataro sottolinea come i 3.500 anni di storia dei Campi Flegrei sembrino esaurirsi in un soffio, grazie alla continuità della tipologia di alimenti impiegati, che arrivano sino ai nostri giorni. In questo senso la storia dell’ enogastronomia flegrea costituisce un esempio etico di continuità culturale e di possibili percorsi futuri. Non è un caso che la gastronomia napoletana di città sia seconda soltanto a quella parigina. La città ha assorbito la gastronomia ed i prodotti delle aree interne e costiere ( es. ortaggi e legumi), unendola all’arrivo della pasta che ha soddisfatto il fabbisogno calorico della popolazione, così come il riso ha fatto per i cinesi. Il cibo – prosegue Pignataro – non può essere slegato dalla storia: le abitudini gastronomiche sono un patrimonio che l’enclave partenopea delle vecchie generazioni conserva gelosamente, mostrando un atteggiamento respingente verso le novità; al contrario, giovani generazioni di chef trentenni, hanno assorbito tale patrimonio, rivisitandolo in chiave moderna semplicemente attraverso l’uso di nuove tecnologie di cucina, senza mai abbandonare i prodotti della tradizione. D’altra parte, la crisi ha aguzzato l’ingegno delle giovani generazioni, provocando fenomeni, quali la nascita, in un improbabile contesto sociale, di locali dove si lavora per rendere i sapori ritrovati della tradizione più netti e intellegibili da tutti.
Questa “rivoluzione” che è in corso nella nostra regione, non sarebbe stata possibile senza la conoscenza di ciò che si racconta, a mò di romanzo, nell’opera del Prof. Carannante. Il giornalista conclude sottolineando l’importanza della memoria, quale bene immateriale da trasmettere di generazione in generazione, lanciando una proposta concreta: la preparazione delle 126 ricette descritte nel libro, ad opera della nuova schiera di giovani chef campani d’eccellenza.
Interviene l’autore, che, nel ringraziare tutte le persone che hanno reso possibile tale pubblicazione e il gremito pubblico che ha riempito la cantina, sottolinea l’inversione di tendenza negli studi di archeologia e bioarcheologia, dove i giovani studenti stanno imparando a dare il giusto peso al ritrovamento dei cd. “reperti minori” e ai luoghi di ambientazione e preparazione del cibo: Pompei, Cuma, San Vincenzo al Volturno, dove sono stati ritrovati resti di ceramiche per uso di cottura di alimenti e per la successiva presentazione dei cibi ai commensali.
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