sabato 12 febbraio 2011

Napoli, Osteria La Mattonella. Quarant’anni di cucina verace, a tavola con le riggiòle sopra il Ponte di Chiaja

12 febbraio  ,continua la mia avventura tra i luoghi della memoria e del cibo di città.
la famiglia Marangio, gente semplice e professionale
Via Nicotera 13
Tel.081.41.65.41 – maxmarangio@hotmail.it
Aperti tutti i giorni, pranzo e cena ( 12,30 – 15,00; 19,00 – 23,00.)
Chiuso: domenica sera
Ferie: due settimane centrali in agosto

di Giulia Cannada Bartoli

Si balla? No, almeno non subito. Facciamo qualche passo indietro, un tre secoli, più o meno. Sì, perché le mattonelle di stile vietrese che rivestono le pareti dell’Osteria La Mattonella in Via Giovanni Nicotera, risalgono proprio al 17oo. L’autore pare, sia un certo Salvatore delle Donne.
Questo luogo è davvero uno scrigno della memoria, qui ci sono segni della storia di Napoli rari e introvabili, come il pozzo chiuso che corrisponde con Napoli sotterranea, un complesso di cavità e cunicoli scavati nel sottosuolo tufaceo della città. Al suo interno si collocano soprattutto strutture e ambienti risalenti al periodo classico greco-romano. Un’eccezionale testimonianza archeologica, i primi manufatti che si ritrovano in questi affascinanti luoghi persi nell’oscurità del sottosuolo, risalgono a circa 5000 anni fa, quasi alla fine dell’era preistorica, fino ad arrivare ai resti delle strutture realizzate nel Seicento. Sono diversi i punti di accesso a Napoli Sotterranea: il primo si trova a Piazza San Gaetano, mentre il secondo a via Sant’Anna di Palazzo, a due passi da Via Nicotèra.
Napoli Sotterranea
Un altro richiamo al passato viene dai grandi chiodi rimasti attaccati alle pareti
in alto a sx ora c'è la parete, ma prima della chiusura dei giardini questi chiodi servivano per attaccare i cavalli
che testimoniano la precedente presenza di stalle confinanti con i giardini dell’attiguo Palazzo Monteroduni, poco più giù sulla destra, dove si attaccavano i cavalli.
Palazzo Pignatelli della Leonessa di Monteroduni, i giardini confinano con la cantina della Mattonella
In realtà, le pareti dell’osteria, che sopra ho definito semplicisticamente mattonelle, si rifanno all’etimologia ed alla storia dell’antica “ riggiola” napoletana. Nei secoli scorsi per “riggiola” s’intendeva la semplice piastrella in cotto grezzo, adatta a piastrellare un pavimento.  Stante questa funzione, l’ipotesi più accreditata vuole che il termine derivi da un latino volgare “rubjòla” con translitterazione di jo in ggi+ vocale come succede per il classico habeo diventato tardo latino habjo e napoletano aggio. Rubjola, vorrebbe dire, da un latino della decadenza, dal classico ruber, “rossiccia”, proprio ad indicare il tipico colore rosso della terracotta, materiale con il quale si fabbricava l’originaria riggiola napoletana.  Questa è la tesi del nostro grande Lello Brak. Una tesi più complicata vorrebbe riportarne il significato all’origine spagnola. La caratteristica della riggiola è di essere molto resistente.
"riggiòla"napoletana del periodo pre - barocco
L’operaio che pavimenta le stanze è chiamato “’o riggiularo” e sta ad indicare una persona particolarmente esperta nella posa delle riggiole, per quanto riguarda sia l’eventuale taglio da eseguire sia la vera e propria disposizione a terra che nessun altro è in grado di fare con tale abilità.
Questa tesi sostiene che, Nel 1450 Alfonso il Magnanimo, primo re della dinastia aragonese a Napoli, sentendo nostalgia delle maioliche della sua terra, convocasse Juan al Murcì, direttore delle ceramiche di Manises a Valencia, dandogli incarico d’istruire allievi nella fabbrica di “rajoletes pintadas”, quelle cioè che conosciamo come variopinte mattonelle maiolicate. L’arte della riggiola si sviluppò in Campania in modo assai vario attraverso il tempo. Nel XV e XVI secolo il repertorio figurativo riportava ad un estremo naturalismo comprendente le insegne e i simboli araldici della casata che ne commissionava la realizzazione, quando non addirittura i ritratti dei committenti. Solo dal XV al XVIII secolo l’evoluzione delle tecniche di produzione  fa si che l’arte dei riggiolari assumesse un ruolo di primo piano. Siamo nel periodo di massima fioritura che si fa risalire all’epoca barocca, in uno con quello dell’architettura partenopea. Il ruolo che in essa ebbe la ceramica è sotto gli occhi dei visitatori dei monumenti della nostra regione. I pavimenti di tantissime cappelle e chiese, tra tutti, quello della Chiesa di San Giovanni a Carbonara,
il pavimento della Chiesa di San Giovanni a Carbonara . SOS , è da salvare.
brillano della lucentezza di smalti che, nelle tonalità calde e dorate del giallo, dell’arancio, del verde, dell’azzurro carico e del blu scuro, rivestono e valorizzano i mattoni d’argilla. Nei chiostri, uno tra tutti quello del Monastero delle Clarisse di Santa Chiara a Napoli, ritroviamo ovunque magnifici effetti cromatici.
il magnifico Chiostro di Santa Chiara
La storia dei “riggiolari” napoletani ha suscitato notevole interesse tra gli studiosi di ceramica. Valutando attentamente la situazione economica e sociale del territorio partenopeo si è finalmente compreso che il sorgere, a partire dal primo decennio dell’Ottocento, di tante fabbriche di mattonelle, specialmente tra via della Marinella, il Borgo Loreto e la Piazza del Carmine, non fu casuale. Si è perciò parlato di vero e proprio primato artistico del centro ceramico partenopeo nel XIX secolo, con estensione della fama ed esportazione degli impianti napoletani in Calabria, Sicilia e addirittura all’estero (Francia, Inghilterra, Africa). Tra tutte, si ricorda la famiglia dei Giustiniani, il vero capostipite della scuola Giustiniani fu, Nicola.
Riggiòle Giustiniani
Nicola Giustiniani nasce a San Lorenzello, abbascio la terra il 7 gennaio 1732. Di buona razza, ma anche versato, Nicola, acquistata la padronanza della tecnica figulina, parte per Napoli nel febbraio del 1752, prendendo dimora a via Marinella 7, (l’attuale Via Vespucci) dove diede il via alla famosa “Fabbrica del ponte” che rese nota nell’intera Europa, grazie anche all’appoggio del Re, la manifattura detta appunto “figulina Giustiniani”. Nell’Ottocento col migliorare delle condizioni igieniche e il mutare delle esigenze sociali, il rivestimento maiolicato, prima riservato agli impianti delle residenze nobili, venne introdotto anche nelle case borghesi . L’introduzione della meccanizzazione determinò da un lato, l’aumento della produttività e dall’altro, l’impoverimento qualitativo. Se la crisi delle manifatture di piastrelle napoletane artigianali, incalzate dalla concorrenza dell’industria, non tardò a farsi sentire, la decadenza può considerarsi già pienamente avviata intorno al 1935. Fortunatamente in molti luoghi della città, ed in particolare all’interno del Liceo Classico Vittorio Emanuele di Napoli, sono stati ritrovati dei frammenti di riggiole. Uno di questi appartiene proprio alla Fabbrica di Salvatore delle Donne,
Frammento di Riggiòla di Salvatore delle Donne
del quale s’intravede il marchio.  Risale alla prima metà secolo XIX, i colori sono verde, blu, giallo, nero. La fabbrica è famosa per la caratteristica produzione di riggiole decorate a finto marmo prevalentemente nei colori verde e rosa scuro imitante il granito. Lo so, ora vi starete chiedendo: “ ma a cosa ci serve una “lectio magistralis “sull’arte delle riggiole napoletane?” “Eh serve sì, ci ricollega direttamente all’Osteria della Mattonella de quo”. Al n. 13 in Via Giovanni Nicòtera (1828 –1894), illustre politico e patriota italiano, si trova da oltre settant’anni, un affascinante locale storico, Vini e Oli fino al 1978 e tradizionale osteria napoletana da allora ad oggi. La mescita, di proprietà di tal Mario Tuccillo, venne rilevata da Rosa de Stefano, mamma di Antonietta e nonna di Massimo, appunto nel 1978.
Antonietta e Massimo in cucina
Il contesto: Via Nicotèra è un “melting pot” per dirla all’americana, di classi sociali e diverse abitazioni, dal “basso” al palazzo nobiliare, nel cuore della Napoli storica: vi si accede da vari punti del quartiere Chiaia, ai confini con quello di Montecalvario che coincide con i “Quartieri Spagnoli”. Possiamo raggiungere a piedi L’Osteria dello storico Patròn Peppino Marangio, scomparso in un tragico incidente. Oggi nel locale ci sono sua moglie Antonietta Imperatrice e suo figlio Massimo. Torniamo per un attimo in via Nicotèra, raggiungibile dal Corso Vittorio Emanuele, la strada più lunga di Napoli, dalle Rampe Brancaccio e dai Gradoni di Chiaia, costruiti per collegare la città bassa con la nascente città alta (Vomero) . Fuori Porta di Chiaia ci fu un’espansione ottocentesca che inglobò, entro il Corso Vittorio Emanuele, le Rampe Brancaccio, queste, assunsero il compito di collegare il Poggio delle Mortelle con la zona adiacente, e si congiungevano anche con le scale del Petraio. Il “poggio delle Mortelle” era una piccola area a sud-ovest della collina di San Martino, tra Chiaia e Montecalvario, aperta sul mare in direzione di Posillipo e celebrata per la bellezza dei luoghi e la salubrità dell’aria; prese questo nome, perché da centosettant’anni vi erano boschi di mirti, detti mortelle. Vico S. Carlo alle Mortelle è tuttora il nome di una piccola strada fra i gradoni di Chiaia e la monumentale chiesa di Sant’Anna a Palazzo.
Eleonora Pimentel De Fonseca
Si arriva alla nostra meta dove mangiare a meno di venti euro, anche dai Quartieri Spagnoli, attraverso Via Santa Teresella agli Spagnoli, dove sorge l’omonima chiesa molto probabilmente, luogo di visite della celebre rivoluzionaria Eleonora Pimentel Fonseca, tra i protagonisti dei moti repubblicani del 1799, la quale abitò, con la famiglia d’origine, proprio in questa strada. Si può passare anche da Piazzetta Mondragone sede del Museo del Tessile e dell’Abbigliamento “Elena Aldobrandini” Fondazione Mondragone.
il Museo tessile a Piazzetta Mondragone
Il Museo ospita gli arredi sacri ed opere dell’annessa Chiesa di S.Maria delle Grazie, quadri dei maestri napoletani del ‘600, pregiati tessuti della collezione Passerini, splendidi abiti della donazione Del Balzo e Pignatelli. Il percorso più semplice e noto per giungere in Via Nicotèra parte da Piazza del Plebiscito, arrampicandosi su per via Gennaro Serra , fino in Via Monte di Dio  sede del prestigioso Teatro Politeama. Prima di svoltare a destra verso la nostra meta, nello slargo di Via Monte Di Dio, ci troviamo davanti ad un reperto archeologico a cielo aperto: la Necropoli di Pizzofalcone, rinvenuta casualmente nel maggio del 1949 in Via Nicotera n. 10 sul colle di Pizzofalcone, durante i lavori di ristrutturazione di uno stabile distrutto durante la seconda guerra mondiale. Una volta svoltato a destra, attraversiamo lo storico Ponte di Chiaia, quello che univa la miseria di vicoli e vicoletti dei quartieri poveri alla nobiltà. Il Ponte di Chiaia costruito nel 1636 per collegare la Collina di Pizzofalcone con quella delle Mortelle, appare come un arco trionfale.
Il Ponte di Chiaia
Attraverso un altrettanto memorabile ascensore ed una scala si accede da Via Chiaia a Monte di Dio. A pochi metri c’è un delizioso scorcio, quasi intatto, la scalinatella di Vicoletto Sant’Arpino,
Vicoletto Sant'Arpino
fino ad un paio d’anni fa, sede di un prestigioso covo del gusto di città, oggi in Via Costantinopoli.  Su tutto questo spicca maestosa la Cupola della Chiesa di Santa Maria degli Angeli, la più alta della città. Ancora, percorrendo il caotico Corso Vittorio Emanuele e scendendo a destra per vico San Nicola da Tolentino, si inizia il percorso verso Pizzofalcone, immediatamente, su uno slargo, si incontra la chiesa di San Carlo alle Mortelle, fondata nel 1616. Qui, nel 2009, a causa di prolungate piogge,
la voragine nella Chiesa di San Carlo alle Mortelle, tempi biblici...
si sono aperte tre profonde voragini che hanno causato lo sgombero di circa 70 famiglie e la chiusura di diverse strade della zona con forti danni per gli esercizi commerciali della zona, compresa la nostra Mattonella. In via Nicotera fino alla metà degli anni ’60 si andava al cinema, al Palazzo e al  Lux (ricordatelo lo ritroveremo…). Poi vennero gli anni dei cinema d’essai, qui c’èra il NO che ha resistito fino alla metà degli anni ’80. Bene,  facciamo un piccolo salto indietro, 1978: Rosa De Stefano, nata nel quartiere, in Via Speranzella,
Via Speranzella
cuoca da sempre, presso la mensa della Chiesa della Madonna di Lourdes in Corso Vittorio Emanuele, prende al volo un’occasione: la Mescita Vini e Oli di Mario Tuccillo, con sede in via Nicotera 13 dagli anni’50 decide di cedere.
Vini e Oli di Mario Tuccillo anni '50
Rosa rileva la cantina insieme al figlio Giuseppe, per tutti, Peppino.
la sala maiolicata in alto on la cornice quadrata, il ritratto di Peppino Marangio
Il locale è un gioiello dal punto di vista storico, Giuseppe e la mamma capiscono che devono lasciare tutto il più intatto possibile: ecco allora il pavimento di basalto, (‘e vasole) ,
il pavimento lasciato com'era
le travi di legno a soffitto, le putrelle di ferro con la puleggia per calare il vino in cantina,
la carrucola per trasportare il vino al piano di sotto in cantina
attraverso le botole di ferro rimaste com’erano. Poi il pezzo forte, le ceramiche, le riggiòle napoletane di Salvatore delle Donne, quelle della sala
un particolare delle riggiole che rivestono tutto il locale
e quelle della cucina, molto simili alle mattonelle della cucina del mitico “Miseria e Nobiltà” di Totò.
le riggiole del '700 della cucina
Nonna Rosa rimane in cucina fino al 1983 , continua Peppino, affiancato dalla moglie Antonietta e dal 2001 dal figlio Massimo. Poi nel 2008, l’imprevedibile, Peppino perde la vita in un tragico stupido incidente , travolto  mentre era sul marciapiede. Antonietta e Massimo dopo un momento di forte disorientamento, cercano di metabolizzare il dolore e decidono di portare avanti il sogno di Peppino, Oste istrionico adorato dai clienti. Nonna Rosa non scende più, ha 83 anni, aiuta da casa. L’ambiente è lo stesso, non è cambiato nulla, tavoli e panche in legno, fotografie di Totò ovunque: la passione di Peppino, conosceva a memoria ogni singola battuta di tutti i film del Principe De Curtis.  In un angolo noto una chitarra, sembra “vecchiarella”, sì, mi conferma Massimo, era di papà, la ebbe in regalo all’inaugurazione da un cliente, perché Peppino, oltre ad adorare Totò, amava profondamente la musica napoletana, anche quella delle sceneggiate e cantava per gli ospiti: “quanti paccheri (schiaffi) hanno preso i clienti!” ricorda Antonietta ridendo.
la chitarra di Peppino
Mamma e figlio e, sporadicamente la sorella Fàtima, studentessa universitaria, lavorano uniti dal ricordo quotidiano di Peppino, in un dolore che è forte, composto, quasi sereno, mai rassegnato. L’osteria è su due livelli, sfruttando quella che una volta era la cantina, è stata ricavata un’ampia sala, tutta legno e ceramica di Vietri con le riproduzioni delle riggiòle originali del piano di sopra ed un bancone di servizio in legno e maiolica tanto bello, quanto evocativo, ispirato agli acquerelli ottocenteschi di Gatti e Dura.
acquerelli ottocenteschi di Gatti e Dura
Mi giro e vedo un pozzo misterioso, chiuso: “ c’è Napoli Sotterranea qui sotto” mi dice Massimo.
il pozzo coperto, corrisponde con Napoli Sotterranea
Nella sala  – ex cantina, deliziosamente arredata con tovaglie a quadretti e ceramiche vietresi, questo ragazzo cresciuto in fretta, conserva ottime bottiglie, qualcuna anche rara, mi ha promesso di aprirne qualcuna.
eredità della mescita Tuccillo degli anni '50
Gli chiedo il motivo di cotanto assortimento, “la clientela è di buon livello, ama mangiare semplice, ma bere bene”. Sono professionisti, docenti della vicina università del Suor Orsola Benincasa, attori dei vicini teatri, magari mangiano solo un piatto, ma non rinunciano ad una buona bottiglia. Do uno sguardo ai prezzi: onesti. Qui nel 2001, continua orgoglioso Massimo, è nata l’ultima versione di “Scugnizzi” di Mario Martone, nostro cliente affezionato. Anche Roberto Benigni è passato di qui per festeggiare la fine di una tournèe in città.
la festa con Roberto Benigni
Antonietta mi racconta un po’ di storia: suo padre Martino faceva la “ maschera” al cinema Lux, i bambini del quartiere che si intrufolavano al buio senza pagare, l’avevano soprannominato “Martino pila in testa”, perché ogni volta che li beccava, li colpiva con la pila sulla testa per cacciarli via. Nello stesso cinema, c’èra un ragazzo che vendeva bibite, gelati e caramelle…si chiamava Giuseppe Marangio: di qui al fidanzamento e al matrimonio con Antonietta, il passo fu breve. Chiedo a lei e Massimo di parlarmi delle materie prime: solo di prima scelta mi rispondono, altrimenti non avrebbe senso, pochi semplici piatti preparati solo con cose buone. La pasta è una delle migliori di Gragnano, il pane è spettacolare arriva da un forno a legna artigianale della zona collinare di Napoli, Marano, devo scoprire dove si trova, si sente il profumo anche a distanza.
meraviglioso pane, da solo vale una pietanza
La spesa di frutta e verdura si fa dal fruttivendolo dietro l’angolo, lo stesso di tutta la vita, visto che anche Antonietta è nata e cresciuta a pochi passi da qui. Idem per la carne. Il baccalà, mi dice la cuoca, lo pago caro, da un fornitore nei pressi dei  Quartieri Spagnoli, ma non lo cambierei per nessun motivo, è il fiore all’occhiello della nostra cucina. Sì, torniamo ai fornelli, il menù è giornaliero e molto semplice: l’antipasto è composto da un crocchè di patate vero (no gene pesca!), un involtino di melanzane o zucchine con provola e prosciutto e una mozzarellina impanata e fritta a regola d’arte.
l'antipasto della casa
I primi non sono moltissimi ma tutti autentici e fatti “a mestiere”: il posto d’onore spetta alla genovese, preparata con tre tipi di cipolle, dorate, bianche e un paio di Tropea. Penne lisce o ziti spezzati, il sugo è bruno denso, profumato, olio non se ne vede,  per chi gradisce ,una grattugiata di pecorino.
la genovese... celestiale
Porzioni notevoli. A pari merito la pasta e ceci, esattamente come quella di casa mia: pasta mista di Gragnano, (perfettamente al dente), ceci cremosi, ma non passati, colore scuro, sapore intenso, “azzeccata” al punto giusto.
pasta e ceci
A seguire, il ragù, la puttanesca, minestra di fave e cicoria, o crema di cicoria e peperoncini verdi fritti (il papà di Antonietta era di origine pugliese). Nota bene: la cicoria, così come molte altre verdure, i cipollotti, i peperoncini verdi, e quello che c’è di stagione arriva dall’orto, quasi a km zero, della fidanzata di Massimo, la sua famiglia è proprietaria di un’azienda agricola nell’agro nocerino – sarnese, magica terra vulcanica. Ancora, zuppa di lenticchie e broccoli, spaghetti ai calamari, pasta e patate con la provola, pasta e zucca, verza e riso (l’unico piatto con il riso che i napoletani accettano mi conferma Antonietta), a Carnevale la lasagna con sfoglia fresca ( la pettola) e ricotta romana. Restano ovviamente sul classico anche i secondi: polpette al sugo o fritte,
polpette fritte e croccanti friarielli, da sotto l'acqua alla padella
polpettone al forno, braciola al sugo con tutti i crismi ( punta di natica e pecorino romano, aglio, prezzemolo, passi e pinoli per la farcia), braciola di cotica per quelli più “hard”, salsicce e croccanti friarielli, dall’acqua alla padella con olio e peperoncino.
braciole al sugo, tutto in ordine, dalla scelta della carne alla farcia
Carne alla pizzaiola e poi il lato mare: primo in classifica: baccalà, fritto o alla “carrettiera”, alici marinate o in tortiera, frittura di calamari, polpo in cassuola o all’ischitana, ovvero polpo crudo gettato in aglio, olio e peperoncino, e poi ricoperto di vino bianco, una ricetta di Nonna Rosa. In estate spaghetti con le cozze o frutti di mare e “impepata” di cozze. Quanto ai contorni, si rispetta la tradizione partenopea: parmigiana di melanzane, solo quando è stagione, zucchine alla scapece,
zucchine alla scapece
peperoni in padella, verdure grigliate in estate, zuppa primavera con fave, piselli e carciofi, insalate fresche, verdure lessate, zucca alla griglia, peperoncini verdi imbottiti, ingrediente principale: la solita “santa pacienza”, stavolta di massimo che pulisce e svuota i peperoncini uno, ad uno. Il vino della casa è un onesto e gradevole Solopaca in bicchieri da osteria, e caraffa di Vietri , ma, chi vuole, può scegliere  tra blasonate bottiglie campane e nazionali.
low cost in allegria, quadretti e ceramiche vietresi
Il dessert è particolare, un’idea di Peppino: piccoli bicchierini di cioccolato artigianale riempiti con il “Frangelico” un aromatico liquore alle erbe.
il dessert...
A questo fine pasto, Giuseppe aveva dato un nome un po’ piccante: “Impeachment”. Perché? Andava consumato in un solo boccone ( Bill Clinton  e Monica Lewinsky  insegnano…) Oltre al dessert imbarazzante, torroncini di San Marco dei Cavoti e biscotti alla mandorla.
oh my God, che impeachment!:) e ora come si fa?
Torniamo seri: qui la ceramica impera, questo è la mattonella, oops, il biglietto da visita che, solo tre anni fa, Peppino Marangio, regalava ad ogni cliente, a prescindere dall’importo del conto.
la mattonella da vista dell'osteria:)
A proposito di conti: siamo intorno ai 18 euro dall’antipasto al dessert “piccante” , vino della casa e caffè. Logicamente saliamo di prezzo se si scelgono vini più nobili. Da Antonietta e Massimo si respira semplicità, passione sommessa, mai urlata, ma sempre presente, in ogni sguardo, parola o, sorriso. Nulla può accadere, il calore umano e la simpatia di queste persone ti fanno sentire a casa, al riparo da tutto.
Mamma Antonietta e i suoi gioielli: Fatima e Massimo. Napoletani veri, specie in estinzione
Il mondo fuori continui pure a girare…noi balliamo, il ballo della Mattone(lla)

mercoledì 9 febbraio 2011

Napoli, La Vecchia Cantina. 60 anni di voci, sapori, gazze fantasma e occasioni perdute in Pignasecca

Napoli, La Vecchia Cantina. 60 anni di voci, sapori, gazze fantasma e occasioni perdute in Pignasecca

7 gennaio 2011
al centro la cuoca e titolare Patrizia Morra con il socio Mimmo Iuliucci, a destra e suo cognato Antonio

Vico San Nicola alla Carità 13 – 14
tel. 081 552 02 26 – 348 .4493803
Aperto a pranzo e cena, 12,00 – 15,30 /19,30 – 23,00
Chiuso: solo domenica sera
Ferie: 1 settimana in agosto
Carte credito, bancomat, buoni pasto: si

Vico San Nicola alla Carità, Quartiere Montesanto, ancora una volta un dedalo di vicoli, salite e discese intrecciate tra di loro a formare i vari rioni del cuore di Napoli. Stavolta siamo nella Pignasecca in un vicolo che comunica con la vicina via Toledo.
Napule è tutta rampe, scalinate,
scale, gradune, grare, grariatelle.
sagliute, scese, cupe, calate,
vicule ‘e coppa, ‘e sotto, viculille.
Allero o disperato, tu saglie
Sempre a Napule; fai na rampa,
n’ata, po’ n’ata ancora,
ca te leva ‘o sciato.
Napule a vide crescere
Tra rampa e rampa. (Anonimo)
Il rione era in origine occupato da complessi religiosi e da palazzi nobiliari, la zona faceva parte di un’immensa tenuta di proprietà dei nobili Pignatelli di Monteleone, detta “Biancomangiare” dal nome di una sorta di meringa, molto apprezzata a quei tempi, che si produceva nel luogo. Verosimilmente la tenuta esisteva fin dall’epoca aragonese ed era posta subito fuori l’antica “Porta Puteolana” (sul decumano inferiore, detto “Spaccanapoli“), in corrispondenza dell’odierna piazza del Gesù Nuovo.  La zona avrebbe poi assunto un carattere tipicamente commerciale dopo l’abolizione del cosiddetto “Mercatello”, che si teneva nel vicino largo, in seguito divenuto Piazza Dante e che costituiva uno dei principali punti di rifornimento alimentare cittadino. Via Porta Medina, denominata anche via della Pignasecca, per il fatto che conduce a piazzetta della Pignasecca, è uno dei quartieri più ricco di contrasti e affollati di Napoli.
Via Porta Medina detta Via Pignasecca
L’origine del suo nome si è persa nei meandri della memoria. Sono pochi, infatti, a sapere che la Pignasecca, ( largo, via e vico) si trovava un tempo fuori le mura, dove vi era un antico albero di pino, e deve il suo nome a delle gazze dispettose, sì, proprio gazze, oggi “inquietanti e dispettosi fantasmi”. Ecco la leggenda, un sant’uomo, un uomo di chiesa, fu scoperto in “casa”con la perpetua per colpa di una maledetta gazza indisponente. In quei tempi Napoli, città magica e lussuriosa, viveva momenti di ricchezza e voluttà. Anche i quartieri più poveri si abbandonavano al sensuale torpore dei periodi migliori. Gli amori clandestini, i pruriti irraccontabili dei figli di Partenope, non risparmiavano nessuno. Men che mai le gerarchie ecclesiastiche. Nel quartiere parallelo a Spaccanapoli, si intrecciavano storie d’amore e tradimenti, senza troppi riguardi per il sacro abito talare. Un unico inconveniente sembrava perseguitare gli amanti distratti. Le gazze del bosco vicino penetravano nelle case abbandonate alle passioni, facendo incetta di tutto.
la gazza ladra scomunicata:)
Gioielli, monete d’oro, e finanche biancheria intima, scomparivano d’improvviso per riapparire, beffardi, su qualche albero della fitta pineta. Per i napoletani ci volle poco a capire. La vittima dei curiosi furti non poteva che essere un adultero. Ma che succede se su un pino della vergogna si ritrovava una mitra vescovile, o magari il sacro anello della Curia? Le voci correvano veloci. Arrivavano nelle case della “gente onesta”, delle mille donne che frequentavano la chiesa. Poi, addirittura in Curia. Il vescovo e la perpetua. In casa… Per porre rimedio allo scandalo, riunioni e contro riunioni. Consulti e confessioni. Poi si optò per la “Bolla di scomunica”. Eccessivo ma definitivo, il rimedio sembrava convincere anche la Santa Sede. Una bella, seria, sacrosanta “Bolla di scomunica”. Ma indirizzata a chi? A quanti avevano esagerato con le battutacce? Alle malelingue di un quartiere troppo chiacchierone? Alle donne che avevano fatto la spia? O agli scugnizzi che avevano tirato giù dai rami la Mitra dello scandalo? No. Bisognava colpire alla fonte. Bolla di scomunica alle… gazze ladre. E per chi non ci avesse creduto, il documento sarebbe stato affisso al pino più alto del “Biancomangiare”. Detto fatto. Una bella mattina i napoletani ritrovarono, su uno dei fusti della pineta, un cartello. “In nome di Dio, per la grave responsabilità che mi fu affidata in terra, nella qualità di vicario di Cristo, io, Vescovo di Napoli e delle sue province, scomunico, d’ora innanzi, tutte le gazze di questo quartiere, anzi… tutte le gazze di questa città”. Fischi e pernacchi, in perfetto classico, stile napoletano . Un episodio, un evento curioso e inquietante, finisce, però, per scuotere anche l’intramontabile voglia di “pazziare” (scherzare). Tre giorni, solo tre giorni e il pino del bosco “Biancomangiare” comincò a perdere i suoi aghi. Ingiallì e si seccò, e con lui tutti gli alberi della fitta pineta. Non solo, anche le gazze dispettose finirono per scomparire. In un sol colpo, al posto del bosco, la leggenda popolare narra di una vasta distesa, arida e funesta: la Pignasecca. Sembra uno scherzo, ma la vicenda del vescovo libertino ha finito per dare il nome ad una delle strade più antiche di Napoli. Ora di quella storia è rimasto solo un ricordo sbiadito. Non manca la battuta irriverente, non manca il sarcasmo anticlericale che, da sempre, contraddistingue i napoletani. Una sola cosa viene raccontata a bassa voce, col piglio severo, lo sguardo scuro e corrucciato: all’alba, quando ci si lascia alle spalle piazza Carità, quando si supera il mercato del pesce e il grigio Ospedale dei Pellegrini, un suono, un lamento, un grido del passato. Sono le gazze. I fantasmi della Pignasecca.
il fantasma della Pignasecca:)
Al sorgere del giorno comincia la vita in Pignasecca, ovvero il mercato. Il mercato continuo della Pigna Secca ” nella descrizione di Matilde Serao:
Matilde Serao
“Tutto il quartiere della Pigna Secca, dal largo della Carità, sino ai Ventaglieri, passando per Montesanto, é ostruito da un mercato continuo, vi sono botteghe, ma tutto si vende nella via; i marciapiedi sono scomparsi, chi li ha mai visti? I maccheroni, gli erbaggi, i generi coloniali, la frutta, i salami ed i formaggi, tutto, tutto in strada, al sole, alle nuvole, alla pioggia; le casse, il banco, le bilance, le vetrine, tutto nella via.” Oggi, nonostante le cose siano abbastanza cambiate, in questo caratteristico e celebre mercato dei Quartieri Spagnoli si respira ancora l’antico sapore del mercato di una volta, dove la contrattazione era ed è ancora un elemento imprescindibile. Passeggiare tra le bancarelle e la gran quantità di personaggi che caratterizzano gli affollatissimi vicoli, dove la luce del sole non arriva che per poche ore al giorno, e lasciarsi rapire dai colori, dalle voci dei venditori, mentre la folla di persone indaffarate ti trascina, è un’esperienza appassionante, come ritornare veramente indietro nel tempo, anche per ricordare che nel centro storico di Napoli, a differenza di altre città, vive ancora una consistente fetta di famiglie di ceti meno agiati, ancora oggi, infatti, la Pignasecca
Carciofi, 10 teste 5 euro
é caratterizzata da innumerevoli bancarelle e negozi di prodotti orto-frutticoli ed eno-gastronomici, nonché, da taverne, trattorie e rosticcerie
cibo di strada napoletano, panzerotti e "palle e riso", 1 euro al pezzo
strettamente legate alla tradizione napoletana, spesso di straordinario livello nonostante l’economicità dei prezzi.
il mercato, prezzi meno cari almeno del 30 %
Via Pignasecca oggi non ha un senso di marcia: o meglio, ce l’ha ma nessuno lo rispetta. I motorini scendono dai quartieri spagnoli, i marciapiedi sono occupati da ambulanti di ogni provenienza, le auto fanno lo slalom tra la gente che si affanna per arrivare sana e salva alla fine di quest’insostenibile tragi – comico caos. Qui hanno la loro stazione di arrivo il treno della Cumana, la funicolare che porta al Vomero e un’importante fermata della Metropolitana. Quando arrivano tutti i mezzi in pochi minuti, un fiume di persone si riversa in questo vicolo stretto e lungo. Benvenuti nella Pignasecca di Napoli, una strada lunga poco meno di un chilometro dove si può trovare di tutto e di più. Il miglior pesce
pesce del golfo e prezzi imbattibili
e i migliori arancini (‘e palle ‘e riso) di Napoli. Coperte, vestiti, pane e frutta a poco prezzo. Scenografici balconi fioriti con appesi pomodori, peperoncini e piantine di menta e salvia, ma anche, inutile nasconderlo, strade sporche, graffiti, muri scrostati, auto parcheggiate sui marciapiedi.
balconcini sui vicoli
Questa è forse la vera Napoli, non ancora completamente omologata, quella degli acquafrescai, dei pescivendoli urlanti, dei negozi alimentari con ogni ben di dio, con le esposizioni di tutta l’arte della friggitoria napoletana, con i banchetti dove trovi di tutto, con i negozi da “tutto a 50 centesimi”, con gli extracomunitari che sembrano essersi integrati alla perfezione nel tessuto sociale del luogo. E’ vero, bisogna stare attenti allo scippatore, al motorino che passa sui piedi e alla gente che si accalca sui ristrettissimi marciapiedi ma, è qui che trovi la parte sanguigna di questa città, forse l’unica che ha ancora conservato il negozio di cibi cotti che fa da contraltare alla pizzeria che mostra il marchio della pizza d.o.p. E’ qui, proprio da Piazzetta Montesanto che, guardando verso la funicolare, spostando lo sguardo verso l’alto,
La Certosa di San Martino vista dalla Pignasecca
si va ad incrociare lo sguardo con il magnifico spettacolo della Certosa di San Martino e di tutto il suo colle che imponenti si concedono come in nessun’altra parte della città. La Pignasecca è anche l’unico quartiere dove in mezzo al caos più totale, si trova l’antico ospedale dei”Pellegrini” con le sue due chiese.
l'Arciconfraternita
L’arciconfraternita e l’ospedale S.S. Trinità di Pellegrini e Convalescenti” vennero fondati nel 1578 da sei artigiani napoletani, i quali volevano creare una congregazione religiosa che affiancasse, all’esercizio del culto, un’opera di soccorso per i bisognosi e per i poveri. Uno dei sei artigiani, un certo Bernardo Giovino, propose di ospitare e di assistere i pellegrini in transito a Napoli. Infatti, tutti coloro che venivano a Napoli spinti dalla fede non sempre avevano la possibilità di trovare a poco prezzo un alloggio in città, inoltre alcuni fedeli, per lo strapazzo del viaggio, talvolta, si ammalavano e avevano bisogno di cure. Bernardo Giovino propose, così, di creare una casa ospitale (ospedale) dove i pellegrini potessero essere accolti per tre giorni interi. Nel 1852, essa si trasferì alla ” Pignasecca” dove un gentiluomo, don Fabrizio Pignatelli dei Duchi Monteleone aveva fatto costruire una casa e una chiesa ( la S.S. Trinità d’ispirazione vanvitelliana) a cui affiancare un ospedale.
la chiesa della Santissima Trinità
Quando il duca morì, i suoi eredi affidarono la realizzazione dell’ospedale all’arciconfraternita dei pellegrini. L’ospedale fu completato nel 1591. Ancora oggi a  Napoli per minacciare bonariamente qualcuno si dice “ te mann’ ‘e Pellerini”. Qui, tra piazzetta Montesanto e piazzetta Olivella, la ferrovia Cumana, la metropolitana, e la funicolare, costituiscono il sistema di collegamento del centro storico di Napoli con tutto il resto della città e dell’immediata periferia.
la Cumana e la funicolare di Montesanto com'èrano
Nel 1883 a Roma nasce la “Società per le Ferrovie Napoletane” per la costruzione e la gestione di una ferrovia economica da Napoli per Pozzuoli e Cuma (linea Cumana). Questa linea, in esercizio fin dal 1889, collega il centro urbano di Napoli con le località dei Campi Flegrei, da considerarsi ormai un tutt’uno con la città. Accanto alla stazione della Cumana, troviamo quella della funicolare di Monte Santo, la cui storia è degna di qualche cenno: venne inaugurata il 30 maggio 1891, dopo cinque anni di lavori e due anni dopo l’apertura della funicolare di Chiaia. Essa collega la sommità del quartiere Vomero con il quartiere Montecalvario.
la funicolare di Montesanto com'èra
La folla invade il quartiere all’arrivo e alla partenza dei treni, alla Pignasecca o all’Olivella, i visi raccontano storie, sono biografie inconsapevoli.
la gente alla Pignasecca
A Montesanto si capisce chiaramente perché Napoli è una città fluida: nei bar si possono incontrare, indistintamente intellettuali, studenti, impiegati, pensionati, casalinghe, quelli che da sempre si inventano un lavoro, i tormentati alla ricerca di una dose. La nuova stazione della ferrovia Cumana, tutta acciaio e cristalli, si eleva come una cattedrale nel deserto, mette soggezione. Alla stazione della ferrovia Cumana di Montesanto, nell’attesa del treno, ho passato il tempo ad osservare le facce delle persone, nel tentativo di capire qualcosa in più di questa mia città dai mille volti. Vedo disagio, delusione per una vita sempre meno degna e umana. Arriva il treno, il vagone stona totalmente con la lucentezza della stazione, è sporco e scrostato. Osservo e ascolto, di spensieratezza e ottimismo neanche a parlarne. Una volta, mi racconta mia madre, “nel primo dopoguerra, la cumana significava gioia, perché dal centro storico si andava al mare a Lucrino, previa fermata golosa dalla mitica friggitoria Fiorenzano per il cartoccio di scagnozzi, crocchè e panzarotti.
Pozzuoli - Lucrino com'era
E ancora mi parla di quando sua zia le raccontava di Rosa la Mussolinara, o Rosa d’ ‘a Pignasecca, una donna avvenente, che col suo saper fare e con buone movenze incantava gli avventori, recando con se una cesta contenente mercanzia varia di mussola, quali fazzoletti fini e biancheria intima, ed in breve tempo era capace di venderla tutta. Intanto è arrivata la mia fermata, Montesanto, da qui procedo lentamente verso Vico San Nicola alla Carità, percorrendo tutta via Pignasecca fino ad imboccare l’ultima traversa a sinistra. Mi fermo al numero 13, qui da circa 60 anni, La Vecchia Cantina, prima semplice mescita di vino e poi osteria, è passata in mano a due famiglie: Esposito dal 1961 al 2008 e Morra – Iuliucci fino ad oggi. Il fatto che la gestione di Patrizia Morra, dolce e grintosa casalinga Pignasecca doc e suo genero Mimmo Iuliucci duri da pochi anni non deve affatto trarre in inganno.
Mimmo, Patrizia e Antonio, tradizione e determinazione
Dietro c’è una solida tradizione di ristorazione di quartiere, salumerie e bar. Nel 2008 si presenta l’occasione, il proprietario Francesco Esposito decide di trasferirsi e per Patrizia si avvera un sogno. Mi racconta: “ ho cinquant’anni, cinque figli e quattro nipoti, avevo due desideri nella mia vita incontrare il Papa e aprire una trattoria perché adoro cucinare. Li ho realizzati entrambi, vivo felice e do il meglio di me a questo lavoro e alla mia famiglia, a casa mia cucino da capo, non mi piace mischiare lavoro e vita privata. Mimmo ha sposato la figlia di Patrizia, ha meno di trent’anni e le idee chiare, anche per lui un passato nel settore, studi all’alberghiero, esperienze nelle attività di famiglia. Oggi sono impegnati quasi ventiquattro’ore in trattoria, investono qui energie, idee, fatica, e capitali per continui miglioramenti. Siamo in un locale storico, qui nell’800 aveva sede il famoso Caffè Greco.
pasta di eccellenza
Il locale è a fronte strada sulla sinistra, due vetrine, tutto in legno, prodotti d’eccellenza in esposizione, rimango perplessa, vedo marche importanti e mi domando come si possano conciliare con un menù buono e low cost. Poco dopo scopro l’arcano, tutte le materie prime arrivano da fornitori di famiglia a prezzo di costo, ecco perché si usa la pasta del Cavalier Cocco. In cucina c’è Rita, Mimmo dà una mano dividendosi tra sala e fornelli, di sera arrivano i rinforzi, la sorella della cuoca, Maria. Antonio, cognato di Mimmo e giovane laureando dà una mano in sala. La Cantina è davvero accogliente, semplice, tutto in legno, sedie impagliate e tovaglie bianche e rosse a quadretti.
l'interno
Come luci le vecchie lanterne in ferro delle strade, due salette separate da un arco, circa 45 coperti. All’ingresso un bancone di accoglienza e scaffalature con bottiglie prevalentemente campane. La seconda saletta è divisa dal banco vivande dalla cucina, abbastanza ampia, tutta bianca, ordinata, sei fornelli, ogni cosa al suo posto, Patrizia e Mimmo rigorosamente in grembiule da servizio.
la cucina
Sono incuriosita dalla presenza di tante bottiglie conosciute, mi risponde Mimmo: “ è una passione, abbiamo comunque deciso di offrire entrambe le possibilità ai nostri clienti, un degnissimo vino della casa del beneventano (confermo)
Aglianico della casa
e per i clienti di fuori la possibilità di assaggiare le nostre eccellenze senza comunque andare in bolletta. Come sempre vado a curiosare tra le materie prime: della pasta abbiamo parlato, la stessa usata anche da Frank Rizzuti dell’antica Osteria Marconi di Potenza e chef del Ristorante Dattilo a Strongoli Marina. L’olio è extravergine pugliese, la carne, i salumi e i latticini arrivano tutti da Agerola, anche in questo caso, grazie ad un rapporto trentennale con un fornitore di eccellenza, il caseificio Buonocore.
i "ciccilli" di Agerola, scamorzine farcite con olive e peperoncino
Pane, verdure, uova e frutta dal mercato di zona, per il pesce Mimmo sceglie la distribuzione del fresco specializzato e le splendide pescherie della Pignasecca. La mozzarella arriva dal caseificio Morgese nell’Aversano. Il menù è stampato e varia ogni giorno, in base alla spesa fatta da Patrizia e Mimmo. Partiamo dagli antipasti: misti di verdure alla griglia, alici marinate,
alici marinate
il “tagliere di Agerola”  un ceppo spesso circa 20 cm., composto da salumi, latticini e formaggi dei monti Lattari,
Zeppoline di Patrizia
ancora zeppoline di mare lavorate a mano, carpaccio di baccalà affumicato e bruschette. La scelta dei primi è varia e si alterna tra la pura tradizione e leggerissime rivisitazioni: tutte le paste con i legumi,
Spaghetti spezzati e lenticchie
pasta e patate con o senza provola, pasta e zucca anche con la provola (questa la devo provare), pasta e cavoli, riso e verza, spaghetti alla puttanesca, ziti lardiati, ragù, genovese, carbonara, matriciana, poi gli spaghetti “miseria e nobiltà”
l'ispirazione...
saltati in padella con olive bianche, nere, capperi, papaccelle e qualche pomodorino.
... la ricetta
Ancora, la “pignatta” fatta con mezzani, salsicce broccoli, guanciale, caciotta fresca e qualche pomodorino, le casarecce alla “ciociara”con pomodorini del piennolo, pancetta e ciccioli. Sul lato mare, spaghetti ai frutti di mare, alla “luciana” con i polipetti, paccheri al coccio, linguine agli scampi. I secondi si concentrano in particolare su carni e latticini: fiorentina alla brace, filetto, costolette di maiale con papaccelle, salsicce di Agerola alla griglia, polpette fritte, o, al sugo, spezzatino di vitello al latte, fegatini in padella con l’alloro, carne del ragù e della genovese, e poi la mitica zuppa di soffritto
la zuppa forte di soffritto
fatta in casa da Patrizia e il piatto unico bucatini e coniglio all’ischitana. C’è da divertirsi con tutti i modi nei quali Patrizia prepara i latticini di Agerola: i “ciccilli” (piccole scamorze appena stagionate farcite di olive e peperoncino” alla brace,
Ciccillo alla brace con friarielli
una favolosa, morbida scamorza con pomodorini del piennolo e melanzane, la scamorza alla “vecchia cantina”, farcita di salame e saltata in padella con pomodorini, olive e melanzane.
Scamorza "Vecchia Cantina"
E poi le frittate, di cipolla, di patate o ricotta e spinaci. Le preparazioni di pesce sono altrettanto tradizionali, baccalà alla carrettiera, o fritto,
gamberi e calamari alla brace
stocco in bianco con le olive, o, al forno con patate, gamberi e calamari alla brace. Su richiesta la zuppa di pesce. I contorni, che a Napoli possono anche diventare un piatto unico, variano a seconda della stagione, friarielli, parmigiana di melanzane o zucchine, peperoni in padella, patate al forno, melanzane a diavoletto, ossia le ultime melanzane, quelle piccine di fine stagione, tagliate in quattro, conciate con aglio, origano e peperoncino e messe a riposare sott’olio. Anche i dolci sono tradizionali e fatti da Patrizia e da sua figlia Rita:
la pastiera
pastiera, babà con panna e caramello, charlotte di mele, tiramisù, caprese e la “crosmata di mele” mutuata dalla fiaba di Disney.
Charlotte di mele con panna
Come spesso accade in questi locali della Napoli storica è disponibile anche il cucinato da asporto. Intravedo una scala in ferro che scende, chiedo a Mimmo, mi guarda orgoglioso e mi dice “venite, venite”: scendiamo per una ripida scala a chiocciola e mi ritrovo in una vera e propria cantina, bottiglie di pregio lasciate dal primo proprietario, tre botti che risalgono al 1960, il locale è ampio, Domenico mi dice che ha in progetto di farne un angolo degustazione di vini e prodotti campani. Tradizione e piedi per terra.
le botti del 1960 nella futura cantina del gusto
La clientela è mista, molti professionisti dalla vicina via Toledo, turisti, gente della zona, prima delle 14,00 non si vede quasi nessuno: non c’è niente da fare, Napoli è rimasta agli orari dei pasti della dominazione spagnola. Tutto è molto curato, spesso questi locali sono accusati di essere sporchi, disattenti, qui persino la toilette, sembra quella delle bambole, piccola, profumatissima in legno e ceramica. Siamo ai saluti a Patrizia che è nata qui in Pignasecca, chiedo di raccontarmi qualche episodio di quand’era ragazzina, la baby – nonna parte come un fiume in piena: “La domenica mattina, passava Fortunato con la cesta dei taralli caldi “’nzongna e pepe” e gridava –’nzogna, ’nzogna, Fortunato tene ‘a ‘rrobba bbona ; lungo la salita dallo Spirito Santo alla Funicolare per il Vomero c’èra  l’acquafrescaio che vendeva il bicchiere d’acqua ferrata con le bollicine, la coca cola di allora; ancora la signora con la cesta delle rane che gridava “fanno bbene ‘e criature”; il venditore di lunghe canne da attaccare tra balconi dirimpettai per stendere il bucato; il pescatore che passava di sera con i gamberi : “chist’ pazziavano mmiez’ ‘e scoglie” (a significare che erano freschissimi);   ancora il venditore di ricotta sfusa sulle foglie di fico; la vecchietta che vendeva “’o turtaniello” (graffetta fritta) a 10 lire; ‘o ciurillo che vendeva il sapone ambra a peso e poi il mitico ambulante “do bror’ ‘e purp” che camminava con un  grosso tino in legno al cui interno teneva un pentolone di rame con il coperchio dove c’èra la gustosa bevanda. Ancora oggi, all’angolo della caserma Garibaldi c’è un acquafrescaio che lo prepara: i polipi più grossi messi a bollire con qualche cucchiaio di olio d’oliva, peperoncino e sale. Il brodo si gusta sorseggiandolo da un bicchierino in cui è contenuta anche una “ranfetella” ( un pezzetto di tentacolo) del polpo, oppure versandolo su un tozzo di pane raffermo. Si beve per riscaldarsi nelle rare giornate di freddo napoletane e nelle prime luci dell’alba nelle zone del mercato ittico e portuale, ‘a tazzulella viene stretta tra le mani come fosse una borsa d’acqua calda. Salutando Domenico che segue l’amministrazione vengo al vil denaro, dunque: per un pasto completo dall’antipasto al dolce con vino della casa, senza scegliere piatti di mare, spenderete dai 18 ai 22 euro; per un buon antipasto, un primo, vino della casa e dolce, circa 10 euro, idem per secondo, contorno, vino e dolce. Inclusi nel prezzo: gentilezza, semplicità, unicità e calda umanità del posto.

Via Tarsia, il Teatro Bracco

Ritornando verso piazzetta Olivella, decido per una deviazione, sulla destra c’è Via Tarsia, sede del “Teatro Bracco”, già “Tarsia” che,  inaugurato nel 1962, dette inizio ad una splendida stagione di prosa napoletana. Roberto Bracco, cui è intestato il teatro sorto sui resti del corpo di Palazzo Tarsia, nacque a Napoli il 10 novembre 1861.
Roberto Bracco
Amico di Sarah Bernhardt fu secondo in fortuna solo a Luigi Pirandello. Elegantissimo, famose le sue cravatte, e rabbioso, fu coinvolto in due famose cause, una delle quali contro Francesco Saverio Nitti cui aveva addentato la testa, perché  aveva osato criticargli un lavoro: “Vuje site ‘nu fetente!” pare gli urlasse dopo un’inutile riappacificazione. Salita Tarsia molti l’hanno vista, nel celebre “L’Oro di Napoli” di Vittorio De Sica: Totò scendeva da quella strada vestito da pazzariello per l’inaugurazione di un negozio di alimentari. A casa lo aspettava un camorrista che aveva preso Totò e la sua famiglia per albergo, facendo il bello e il cattivo tempo. Tuttavia, nessuno più ricorda che  salita Tarsia, come via Tarsia e i vicoli vicini,  sono parte del più bello, più grande e sfarzoso palazzo che Napoli abbia mai avuto, Palazzo Spinelli di Tarsia. Di questo palazzo oggi bisogna più immaginare che vedere, poiché una facciata interna e un corpo di fabbrica non piccolo, ancora esistono, con tanto di stemma nobiliare e di ridipintura fresca, ma l’insieme, per chi non abbia mai visto il disegno di Domenico Antonio Vaccaro, non è nemmeno sospettabile.
Palazzo Tarsia
Dopo circa 15 tappe nei luoghi della memoria della mia città, mi viene da riflettere: noi napoletani non apprezziamo, nè prendiamo in considerazione i nostri tesori culturali, storici e umani che sono unici al mondo. Ci si potrebbe impegnare di più, pensare anche ai palazzi nobiliari ormai cadenti, alle strade sconnesse ma di gran fascino. E’ come se Napoli fosse una signora molto bella, truccatissima, ma non curata nell’intimo. In pratica hanno trasformato qualche piazza in falsi salotti chic e si sono dimenticati del cuore di Napoli, ne hanno fatto “ nu quadro ‘e lontananza”.